“Una Storia Semplice” l’ultimo, notissimo romanzo di Leonardo Sciascia
“Una Storia Semplice” è l’ultimo, notissimo romanzo di Leonardo Sciascia, pubblicato nel 1989, anno della morte del magnifico autore siciliano.
L’ho riletto e anche stavolta, come sempre mi succede in presenza di un’opera geniale, ho scoperto nuovi dettagli che hanno reso il contenuto sommerso ancora più chiaro e completo.
E’ un romanzo breve, un giallo polemico fin dal titolo, come dice Elisa Modolo in una vecchia e molto acuta recensione. A dispetto dell’intestazione infatti, Sciascia racconta una storia nient’affatto semplice, ma presentata come tale perché fa comodo ai potenti.
Un diplomatico in pensione, rientrato nel paese natale, va ad abitare in una vecchia proprietà in campagna. La sera della festa del Santo Patrono, telefona alla polizia chiedendone l’intervento perché ha “trovato una cosa in casa”. Il giorno dopo una pattuglia, recatasi a casa del diplomatico, lo trova morto, apparentemente suicida. Ha un buco nella tempia e una vecchia pistola della prima guerra mondiale ai suoi piedi. Il brigadiere che per primo si trova al cospetto della vittima rileva però due indizi che gli fanno sospettare immediatamente un omicidio. Il primo è di carattere fisico: la vittima era seduta “con la testa accasciata sulla scrivania e la mano destra, che avrebbe dovuto penzolare a filo della pistola caduta, stava invece sul piano della scrivania stessa, a fermare un foglio su cui si leggeva: “Ho trovato.”
Proprio il biglietto costituisce il secondo indizio di natura, diciamo così, grammaticale: il “punto” apposto subito dopo l’espressione verbale gli appare illogico, incongruo se messo in relazione alla telefonata del giorno precedente. Non lo sarebbe, invece, se fosse stato apposto dall’assassino che deve aver sorpreso il diplomatico nell’atto di scrivere il biglietto. Nelle intenzioni dell’omicida, ragiona il brigadiere, il “punto” avrebbe lasciato intendere agli investigatori significati filosofici e esistenziali che, seppure un po’ oscuri, avrebbero tuttavia fornito una spiegazione del gesto estremo.
Il brigadiere sarà però l’unico a tentare di scoprire la verità. Egli sarà frenato e, anzi, apertamente osteggiato dalla filiera dei superiori, a cominciare dal commissario, passando per il questore, il colonnello dei carabinieri, fino al procuratore della Repubblica. Tutti mezze tacche, mezze figure, mezzi uomini.
Andrea Purgatori, che ha curato la prefazione al libro in una delle numerose edizioni, li definisce “mezzi carabinieri, mezzi poliziotti, mezzi magistrati. Gente un po’ rozza e un po’ pavida che s’aggiusta l’esistenza scansando i problemi”.
In mezzo alla folla dei mezzi uomini, svetta la figura di un vecchio professore di lettere in pensione, Carmelo Franzò, amico del diplomatico che, coinvolto in qualche modo nelle indagini, viene interrogato dall’ottuso magistrato che è stato suo allievo ai tempi del liceo.
“Il magistrato si era intanto alzato ad accogliere il suo vecchio professore
< Tanti: e mi pesano> convenne il professore.
< Ma che dice? Lei non è mutato per nulla, nell’aspetto>
disse il professore con la solita franchezza>
< Posso permettermi di farle una domanda? Poi gliene farò altre, di altra natura. Nei componimenti d’italiano lei mi assegnava sempre un tre, perché copiavo. Ma una volta mi ha dato cinque: perché?>
< Perché aveva copiato da in autore più intelligente>
Il magistrato scoppiò a ridere. <L’italiano: ero piuttosto debole in italiano. Ma, come vede, non è poi stato un gran guaio: sono qui procuratore della Repubblica>
< L’italiano non è l’italiano: è il ragionare> disse il professore. < Con meno italiano, lei sarebbe forse ancora più in alto>.
La battura era feroce. Il magistrato impallidì. E passò a un duro interrogatorio”.
L’ironia di Sciascia e il suo disincanto nella forza della giustizia, o meglio negli uomini che l’amministrano appare, in questo colloquio, in tutta la sua evidenza. Non c’è più il capitano Bellodi del “Giorno della Civetta”, uomo curioso, coraggioso, colto, investigatore tenace. Qui, come detto, ci sono solo mezze figure che resteranno tali e che non proveranno a riscattarsi neppure quando la storia prenderà una piega inaspettata e decisamente criminale, neppure quando, a pieno titolo, entreranno nel racconto mafia e droga, pur se mai espressamente nominate. Nonostante l’evidenza dei fatti, la presa d’atto della giustezza delle intuizioni investigative del brigadiere, l’infingardaggine dei personaggi resterà tale fino alla fine laddove, tutti d’accordo, opteranno per la soluzione più facile, più semplice, per la soluzione che non rompe una finta tranquillità, non scardina sistemi come i fatti invece imporrebbero.
Un finale, dunque, nient’affatto consolatorio, ma profondamente disilluso e disincantato, come pare fosse lo stato d’animo dell’autore, già gravemente ammalato e ormai in fin di vita. Un finale che ben può riassumersi nella frase che il professore Franzò rivolge al brigadiere: “ad un certo punto della vita – gli dice – non è la speranza l’ultima a morire, ma il morire è l’ultima speranza”.
Ottavio Mirra vive a Capua, in provincia di Caserta. E’ padre di due figli, velista e avvocato, il tutto rigorosamente in quest’ordine. Ama leggere. Nel 2016 ha vinto i premi letterari Racconti nella Rete e Terre di Lavoro – Racconti dal presente. Nel 2018 invece è stato selezionato tra i primi venticinque nell’ambito del premio letterario Zeno e tra i primi cinque per il premioNautilus. Suoi racconti sono stati pubblicati in diverse antologie. Dal porticato (2019, Il seme bianco) è la sua raccolta d’esordio