Caro Michele il libro di Natalia Ginzburg del 1973
Caro Michele, e a questo punto lo stile imporrebbe di andare daccapo, come si conviene nella stesura di una lettera.
In questo caso però, “Caro Michele” è il titolo del bellissimo libro di Natalia Ginzburg pubblicato nel 1973, edito da Einaudi, di cui tento oggi la disamina; titolo che non poteva essere più evocativo trattandosi, di fatto, di un epistolario.
Non è mai facile parlare di un romanzo, descriverne le atmosfere, delinearne il tema principale. In questo caso forse l’impresa è ancora più ardua per la struttura stessa del libro, suddiviso in 37 lettere e 9 segmenti narrativi, perché nelle lettere ci si può perdere nei tanti rivoli che esse creano, ci si può abbandonare al racconto dei cento fatti che costituiscono la quotidianità.
Di questo romanzo, di cui Mario Monicelli nel 1976 curò la versione cinematografica, si è detto di tutto, nel tentativo di inquadrarlo in uno schema, individuarne i contorni, contestualizzarlo.
Qualcuno ritiene che sia un romanzo sul terrorismo, anzi il primo in quegli anni a trattare l’argomento. Secondo altri, si tratta di un romanzo familiare il cui tema principale è rappresentato dal tentativo di una madre quarantatreenne, Adriana, autrice della maggior parte delle lettere indirizzate al figlio Michele, di ricucire rapporti familiari a dir poco sfilacciati. Personalmente credo sia tutto questo, ma credo anche,
aderendo alla tesi dei più, che il tema vero sia soprattutto la solitudine, l’incomunicabilità, la noia.
Michele è un ragazzo di poco più di vent’anni, di estrazione alto borghese, dall’esistenza inquieta e dalla personalità indecifrabile, che da tempo vive da solo e si sposta continuamente: Roma, Londra, Leeds alla ricerca, direi quasi inconsapevole, di una identità che non ha ancora acquisito. La stessa madre, nostalgica e vagamente depressa, ha la consapevolezza di conoscere molto poco quel figlio che ha vissuto con il padre da cui lei si è separata anni prima. “Penso certe volte – scrive Adriana – quanto poco insieme siamo stati, tu e io, e quanto male ci conosciamo, quanto superficialmente tu mi giudichi e io ti giudico. Io ti trovo tanto balordo, ma non so se veramente sei balordo o invece
oscuramente savio”.
Nonostante il titolo, non è un romanzo su Michele, ma sul mondo che gli gira intorno. Tutti gli scrivono: la madre, la sorella Angelica, una tale Mara che, come Michele, vive letteralmente alla giornata e si sposta di casa in casa, di regione in regione, Lazio, Piemonte, Sicilia, trascinandosi dietro un figlio, partorito da poco, che potrebbe essere di Michele. E poi l’amico Osvaldo, il cui rapporto con Michele appare ambiguo. Le lettere che tutti gli scrivono sembrano dettate dall’affetto e dalla voglia di conoscere i suoi spostamenti, ma sono invece solo il pretesto per parlare ognuno di sé, cosicché Michele finisce con l’essere una sorta di parafulmine, l’oggetto su cui scaricare le proprie tensioni.
Ogni lettera, soprattutto quelle della madre, ma anche di Mara, costituiscono il viatico per una seduta psicoterapica, laddove Michele non è il terapista, ma la poltrona. Si accomodano su di lui chiedendogli superficialmente della sua vita girovaga, per poi parlare esclusivamente, direi quasi disperatamente di se stessi. D’altra parte lui non risponde quasi mai. Le sue rare missive sono brevissime e per lo più hanno lo scopo di chiedere piccoli favori.
La lettera della madre contenuta nel capitolo ventiquattresimo, è la dimostrazione plastica di quanto la donna, pur avendo avuto notizia dell’inaspettato matrimonio del figlio, dopo formali frasi di prammatica – “Sono contenta che hai una casa graziosa – E’ possibile che Eileen faccia di te una persona diversa. Ho fiducia di Eileen. Vorrei che tu mi mandassi una sua fotografia” – finisca per parlare di sé, di un suo ex compagno, Filippo, “che ha sposato una donnetta” e della condizione di solitudine nella quale si trova a vivere. Ma sarà proprio la solitudine e il rigurgito nostalgico di un ricordo che nel passato ha visto madre e figlio protagonisti e che lei colloca tra i momenti felici, a renderla improvvisamente e pienamente consapevole di quanto i rapporti tra loro siano sgranati.
“E’ raro riconoscere i momenti felici mentre li stiamo vivendo. Ma devo anche dire che abbiamo perduto quel giorno un tempo prezioso. Avremmo potuto metterci seduti e interrogarci vicendevolmente su cose essenziali. Saremmo stati probabilmente meno felici, anzi saremmo stati forse infelicissimi. Però io adesso mi ricorderei quel giorno non come un vago giorno felice ma come unico giorno veritiero e essenziale per me e per te, destinato a illuminare la tua e la mia persona, che sempre si sono scambiate parole di natura deteriore, non mai parole chiare e necessarie ma invece parole grigie, bonarie, fluttuanti e inutili.
Ti abbraccio. Tua madre”.
A ben pensarci, è probabilmente in questa considerazione, così malinconica e amara, che sta l’essenza stessa del romanzo: ciò che sarebbe potuto essere ma non è stato e mai più sarà.
La scrittura di Natalia Ginzburg così secca e al contempo raffinata, è scorrevole e accattivante, i tanti personaggi, che per esigenze di spazio ho dovuto necessariamente tralasciare, sono tutti molto ben caratterizzati, le riflessioni acute, a tratti struggenti soprattutto nei capitoli conclusivi.
Un libro assolutamente da leggere.