Capolavoro umano oltre che cinematografico, l’ultimo film di Sorrentino
Capolavoro umano oltre che cinematografico.
È stata la mano di Dio è quell’atto di umiltà che spoglia Sorrentino di ogni maschera e lo eleva a magnifico esploratore dell’animo umano, operazione tanto più complessa e coraggiosa perché compiuta su se stesso. Il Re è pronto a mettersi a nudo ed a mostrarci le sue fragilità, le sue paure, il suo dolore.
Per fare tutto ciò Sorrentino non rinuncia al suo cinema, ma indugia molto meno sull’estetica, riuscendo a metterla totalmente al servizio delle emozioni. L’incipit con un Enzo De Caro (non a caso) nei panni di San Gennaro sembra metterci subito sulla strada della visionarietà che tanto gli è cara, ma stavolta c’è una vita vera da raccontare ed il reale reclama il suo spazio.
Il film si propone come romanzo di formazione ed inevitabilmente la famiglia ne è il fulcro. Il ritratto di famiglia allargata anche ai vicini di casa, come nella migliore tradizione napoletana, è di stampo tipicamente teatrale e risulta oltre modo spassoso, ma è soprattutto quello che succede tra le mura di casa che accende la miccia per l’esplosione del dolore.
La famiglia Schisa non è esente da problemi ed incomprensioni ma il timido Fabietto cresce in un ambiente comunque ricco di amore e di gioia di vivere, dove l’incertezza sull’arrivo di Maradona a Napoli sembra essere l’unico reale motivo di preoccupazione. Diego nel film c’è poco in termini di immagini di repertorio, ma il pensiero di lui è diffuso e costante e ne fa immediatamente lo spirito guida di un popolo. Il dolore strazia il cuore di Fabietto/Paolo alla vigilia di un Napoli Empoli, ma questa triste storia era già nota da tempo.
La seconda parte del film, con l’uscita di scena della splendida accoppiata Servillo-Saponangelo rischia di perdere punti di riferimento, qualche quadro/personaggio forse convince un po’ meno, ma è qui che le risate si trasformano in lacrime e quel timido ragazzino si trasforma in uomo e regista. A tal proposito non possono mancare gli omaggi agli indiscussi maestri di Sorrentino: Federico Fellini che lo ispirò ed Antonio Capuano che lo prese per mano e lo guidò.
L’incredibile somiglianza dell’ultima scena del film con quella che chiude Il buco in testa di Capuano forse non è casuale. Quale brano accompagna i titoli di coda non ve lo dico, ma il consiglio è di non mettere via i fazzoletti perché a me il pianto più forte è scoppiato proprio mentre tutto sembrava essere finito.