Uno dei più rappresentativi bassisti al mondo Dario Deidda, abita a Capua
Perché parlare di Dario Deidda nostro concittadino capuano di adozione?
Perché è considerato uno dei più rappresentativi bassisti al mondo e raccontare un po’ della sua storia, può essere un atto di generosità nei confronti di aspiranti musicisti e giovani studenti.
Lo scorso 3 Gennaio, presso l’ Auditorium di Roma, si è tenuto un concerto degno di nota, da diversi punti di vista.
Il quartetto sul palco, composto da icone italiane nel mondo, e, nello specifico, da Enrico Rava alla tromba, Danilo Rea al pianoforte,
Roberto Gatto alla batteria, Dario Deidda al basso, con tampone negativo e nessun contatto con il pubblico, è stato, seppur a distanza,
inondato di affetto, applausi scroscianti, richieste ripetute di triplo “bis”, a conclusione del concerto.
Fin qui, tutto nella norma, si potrebbe dire.
La Musica, con grandissimo rispetto, torna a splendere, soprattutto in luoghi culto, come l’ Auditorium, nella più totale osservanza (reale e non millantata) di norme di igiene e sicurezza, e il pubblico era visibilmente felice di poter godere di un momento di rinnovata partecipazione, di aver ritrovato quattro storie di rilevanza mondiale, nel jazz così come nella musica in generale.
Il ritorno al palcoscenico, poi, per Enrico Rava, dopo un periodo di assenza e preoccupazione per la sua salute, ha regalato al pubblico una risposta ancora più gioiosa e considerevole.
Non mi dilungo sulla carriera dei quattro “mostri sacri”, come si direbbe in gergo giornalistico, ma, piuttosto, sul come si possa diventare un mostro sacro.
O meglio, un esempio.
Dario Deidda, nasce a Salerno, da mamma insegnante di scuola media e papà impiegato alla provincia, entrambi appassionati di musica, lui fino a farla diventare una ragione di vita, un flusso emotivo ed evocativo perpetuo, pur avendo scelto, probabilmente per cultura dell’ epoca, e per educazione familiare, un impiego più sicuro.
Dario è il terzo di quattro figli, e nasce in un contesto in cui la musica è già di casa.
I genitori si erano conosciuti proprio per un amore comune per canti e sonate, allora condivisi in ambito parrocchiale.
La musica, dunque, non era un pericolo, anzi, una vocazione, una missione da portare avanti con cura, devozione, sacralità, altrimenti meglio lasciar perdere.
Il risultato è che tutti i giovani Deidda erano appassionati di musica, tre su quattro hanno scelto di farla diventare una professione (Sandro Deidda sassofonista e Alfonso Deidda sassofonista e pianista) , mai relegata all’ ambito puramente remunerativo dell’ atto lavorativo, bensì maggiormente a quello artistico, in una proiezione che potesse sempre più rendere loro stessi degni di una strada tanto aulica e vicina all’ essenza della bellezza.
La Musica al primo posto, dunque.
È un dettaglio importante, che mi sento di sottolineare per le numerose storie di allievi e giovani esordienti che non hanno, dal loro canto, l’ appoggio delle famiglie.
Si può diventare rinomati Professori di Conservatorio (Dario e Sandro presso il Conservatorio “Martucci” di Salerno, Alfonso presso il Conservatorio “Jacopo Tomadini” di Udine), e concertisti di livello internazionale, come i fratelli Deidda, poiché non è la musica la strada incerta, bensì la volontà.
Quello che differenzia un Artista da un fruitore, che detiene dell’ arte un’ idea falsata e precaria, è l’ assenza di necessità.
Un musicista, un artista per vocazione, vive di necessità impellente, senza la quale non solo non si evolve, non cresce, non migliora, ma non vive.
Il vero artista penserà sempre, probabilmente, di non essere all’altezza dell’ arte stessa che lo ispira, sarà sempre in crisi, ma è una crisi che non cerca soluzione, cerca la crisi stessa, vive nutrendola, poiché necessita di trovare ancora ciò che non conosce, per poterlo desiderare, e spendere l’ intero percorso ad abbattere limiti tecnici, umani e strutturali, che lo allontanino dalla visione globale e dal poter diventare, attraverso le proprie mani, il proprio corpo, strumento di liberazione della musica, dell’ arte in generale.
Dario rappresenta il sacrificio, la perseveranza, il sogno espresso da bambino, quando a 6 cominciò ad avvicinarsi alla batteria, a studiare attraverso metodi e manuali cartacei, poiché scuole di musica, allora, non ce n’ erano; è quel ragazzino di 11 anni, quando nel 1979 comincia ad appassionarsi al basso, che si inginocchierà accanto al padre, per capire la funzione armonica e ritmica della mano sinistra del papà al pianoforte, alla quale proverà a sostituirsi, studiando con il suo primo maestro Mario Ferrigno.
Sarà il giovane diplomato in contrabbasso al Conservatorio, che lascerà Salerno per trasferirsi per oltre vent’ anni a Roma e suonare con i più noti jazzisti italiani e americani, perché lo studio gli aveva dato basi solide di tecnica che non considererà mai definite, con uno sguardo sempre rivolto ai linguaggi d’ oltreoceano e alla possibilità di poter regalare a quel bimbo sognante che è stato, di suonare accanto ai più grandi al mondo.
E da quella terrazza di Salerno, sulla quale si rifugiava a sperare in silenzio, sono certa, che quel bambino ascolta e ringrazia.
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