“La malerba” di Cesare Cuscianna, una riflessione di Nicola Purgato
Addentarsi nella lettura di questo libro “La malerba” di Cesare Cuscianna non è impresa facile. Il percorso è duro, difficile, accidentato. Il testo è disturbante, urticante, per affrontarne la lettura occorre aver già in qualche modo predisposto in se stessi il luogo per accogliere le verità indicibili che, con continuità impressionante, saltano fuori dalla pagina e colpiscono come schiaffi.
Il ritmo della scrittura è incalzante e a tratti volutamente ossessivo: personalmente ho dovuto interrompere più volte la lettura dopo alcune decine di pagine, per riprendere fiato e per cercare di ricomporre in qualche modo le idee, sentendomi del tutto spiazzato e sopraffatto da un’angoscia che avvertivo lievitare ad ogni riga e dall’affanno di una lettura che, non avendo lo scritto nulla di superfluo, non concedeva pause.
L’io narrante è una donna, l’esperienza di vita che ci trasmette parte certamente dal dramma personale dell’anoressia, malattia contratta nel rapporto con i genitori, connotato da autentica perversione affettiva, essendo entrambi anaffettivi, lontana e perduta dietro le sue nevrosi e i suoi falsi miti la madre, narciso e totalmente preso dalle proprie pulsioni – anche nei confronti della figlia – il padre. Ma contrariamente a quanto si può credere al primo approccio – e con qualche ragione – il racconto di Cuscianna non è il diario di un’anoressica, ma la cronaca puntuale e senza sconti di un deragliamento esistenziale che passa attraverso il resoconto delle angosce, dei sensi di colpa, delle pulsioni autodistruttive, del senso di inadeguatezza e del rifiuto di sé unito in maniera inestricabile al disprezzo ed al rifiuto per l’altro da sé, della protagonista. Che arriva a cercare di evitare il sonno, fino al limite estremo delle possibilità che il fisico le consente, per evitare che la perdita di coscienza che al sonno si accompagna, faccia risalire in superficie i demoni che lei tiene a bada, in uno stato di tensione allucinatoria che non la abbandona un momento, nel profondo delle sue viscere, intese non solo in senso figurato giacché lo sforzo continuo cui lo sottopone, ne mina nel profondo anche il corpo. Crederà, la protagonista, di trovare una via d’uscita in una esperienza sessuale estrema, che le restituirà però null’altro, ancora una volta, che il ritratto riflesso di se stessa e di quegli stessi demoni. Giacché nel corpo dell’occasionale partner ella non trova alcuna possibilità di salvezza e di liberazione, poiché in quel corpo si identifica immediatamente, proiettando in esso il suo sé, che puntualmente le viene poi restituito, confermandola nella sua esaltata solitudine, in un finale che stinge in una specie di noir a tinte fosche. In ciascuna di quelle angosce e di quelle ossessioni, chiunque può riconoscersi, alla condizione precisa di abbandonare ogni remora ad affrontare i propri itinerari interiori che spesso affacciano su abissi nei quali non è obbligatorio guardare, ma della cui esistenza è utile acquisire consapevolezza.
Un libro sulla “malattia chiamata uomo” – per usare qui la definizione che mi ha passato l’autore, che è un caro amico. Da quella malattia, che genera l’inevitabile pessimismo della ragione, può offrire un’opportunità di salvezza solo un solido e ben manutenuto ottimismo della volontà, ma la capacità manutentiva non pare – o almeno così mi è sembrato – essere alla portata della protagonista. Un libro difficile, da maneggiare con cautela, predisponendo bene ed in maniera ordinata gli attrezzi necessari ad affrontarne la lettura.