Il Befolko, il viaggio oltreoceano tra il dialetto, le isole e le metropoli
Il Befolko, il viaggio oltreoceano tra il dialetto, le isole e le metropoli.
Roberto Guardi, in arte Il Befolko, è un giovane cantautore napoletano, classe ’92. Dopo il suo primo album, “Isola Metropoli”, pubblicato nel dicembre 2017, tra dicembre 2019 e gennaio 2020 ha inciso il suo secondo disco “Puoi rimanere appannato?”, che uscirà nel 2021 per l’etichetta campana Dischi Rurali. Nove brani, prodotti da Massimo De Vita (Blindur), di cui troviamo in rete già due singoli: “Riesta n’atu ppoco” e “‘O muorto”, due canzoni molto diverse tra loro eppure legate dal filo rosso della sperimentazione, dove dialetto napoletano e sonorità americane degli anni ’70, così come influenze etniche tipiche del sud America e dell’Africa si fondono insieme in un mix assolutamente originale.
Come ti sei avvicinato alla musica? Qual è il primo ricordo che ti lega alla tua passione per questa arte.
R.G: Mi sono avvicinato alla musica per purissimo caso, ero in vacanza con i miei a Cefalù. Su una spiaggia c’erano dei ragazzi con un bonghetto, fui attirato da quel suono, quasi richiamato, volli avvicinarmi a loro e provare anche io. Credo avessi cinque anni, più o meno. I miei decisero di assecondare questo segno, questo evento, e mi regalarono un bonghetto. Ho trascorso i pomeriggi delle elementari e medie a percuotere cose! Suonavo anche sui fili di ferro dello stendipanni usando pennarelli come bacchette oppure sul tavolo della cucina! In famiglia c’era qualche ascoltatore, mio nonno e le mie zie. Sono stato stimolato abbastanza, mi ritengo fortunato! Il primo ricordo legato alla musica è un’audiocassetta che mi fece registrare mio padre in casa, così per riprendere la gioia di un momento. Da qualche parte dovrei ancora averla conservata! L’avvicinamento alla chitarra, invece, è avvenuto al liceo. Fu dettato dalla folgorante scoperta di Cat Stevens e di Simon & Garfunkel.
I singoli pubblicati finora fanno intuire che il tuo è un viaggio in lingua napoletana nella musica di oltreoceano degli anni ’70, ma non solo. Raccontaci cosa ti ha ispirato.
R.G: Si, volevo richiamare fortemente la musica degli anni ’70, e quel cantautorato anglofono di impronta folk che guardava però alle contaminazioni e alla ricerca. Con Massimo De Vita, che è stato il produttore dei singoli e dell’intero album, ci siamo messi un po’ a scandagliare il sound di quel decennio dopo aver ascoltato della musica insieme, per darci dei riferimenti. Per “Riesta n’atu ppoco” credo che in qualche modo io abbia involontariamente guardato a Pino Daniele, al fatto che a volte scrivesse delle canzoni brevissime. Le parole volevano essere poche ma dirette, centrate. Musicalmente non saprei dare dei riferimenti precisi, sicuramente c’è qualcosa di vagamente progressive specie nell’andamento ritmico un po’ sghembo. In ” ‘O muorto”, invece, c’è stata la bizzarra intuizione di unire il Regno Unito un po’ celtico all’America un po’ country e forse southern e, ancora, alla cumbia peruviana. Forse un brano timidamente psichedelico. Il testo è frutto di quando ti vengono i “cinque minuti” di follia. Volevo giocare con la lingua, equivocare, nascondere. Il testo più curioso del disco, per quanto mi riguarda.
Cosa dobbiamo aspettarci dal resto dell’album e dai live che porteranno in giro le canzoni?
R.G: Il resto dell’album, che dovrebbe apparire in primavera, contiene altri sette brani ma nel frattempo vi sarà un altro singolo e forse anche un secondo. Resto fedele ancora una volta al numero nove. I primi due brani sono stati molto “suonati”, ci saranno anche brani più scarni, essenziali. Anche le altre canzoni pescano un po’ in giro per il mondo, a voler richiamare altri paesaggi sonori. A livello testuale vi sarà meno amore che in “Isola Metropoli”, ho provato a fare delle riflessioni un po’ più ampie. Resto fedele anche alla brevità, siamo sotto i venticinque minuti. La questione live resta per adesso un cantiere aperto, credo che dopo l’anno che abbiamo vissuto sia difficile ricominciare e anche riprogrammare. Ci si deve riabituare proprio all’idea di stare su un palco e purtroppo ancora non esiste una data, nemmeno ipotetica, che possa permettere ai musicisti di tornare a lavorare. Inutile dire che spero di suonare quest’album in formazione completa, spero ce ne sia l’opportunità. In ogni caso farò di tutto per provare a crearmi degli spazi e per dare delle opportunità a queste canzoni. Anche l’idea di un trio non sarebbe male, magari anche con formazioni di volta in volta differenti. Mi piacerebbe provare a sperimentare anche nei live.
Facciamo un gioco…se dovessi associare le tue canzoni ad un sapore, quale sarebbe? E ad un colore? Ad un luogo?
R.G: Bellissima domanda, decisamente la più complessa! Sul colore non ho dubbi che sarebbero il blu oppure il marrone. Decisi ma non troppo accesi. Per quanto riguarda i luoghi direi casa di campagna, bosco, oppure un quartiere popolare di città. In mezzo alla gente, cruda e sanguigna, oppure in una realtà appartata, privata, intima. Credo che le mie canzoni rispondano abbastanza bene a questa polarità, “isola” e “metropoli” in fondo erano proprio questo. Da una lato la volontà di mischiarsi con le realtà più semplici, dall’altro quella di evasione, rifugio, fuga. Per quanto riguarda il sapore, credo possa trattarsi di un qualcosa di agrodolce, un pan di spagna in cui non si comprende se ci sia più sale o zucchero.
C’è un artista, campano e non, con cui ti piacerebbe collaborare in futuro?
R.G: Ce ne sono tantissimi, provo a nominare i duetti che spero possano realizzarsi. Se guardiamo in Campania direi Pietra Montecorvino, la sua vocalità mi strega! Poi direi Gnut, Joseph Foll, LUK e Ciro Tuzzi degli Epo, mi piacerebbe lavorare a testi insieme a loro e non solo. A livello nazionale invece nominerei Giorgio Poi, Andrea Laszlo De Simone, poi non disdegnerei un duetto palermitano-napoletano con Alessio Bondì. Se guardiamo alla fantascienza, infine, risponderei, Rosalia, Stewart Copeland e James Taylor.
Roberta Cacciapuoti. Insegnante di lettere, direttrice artistica e fotografa musicale. Arte e musica sono il filo rosso che lega ogni cosa.