Una riflessione di Ottavio Mirra su “Il peso della farfalla” di Erri De Luca
Erri De Luca è tra i maggiori autori contemporanei. Nella sua vita ha svolto i mestieri più vari: operaio, camionista, magazziniere, muratore. Profondo conoscitore di varie lingue, tra cui lo swahili, lo yiddish, l’ebraico antico.
Al suo attivo una sterminata produzione letteraria che spazia dai romanzi alle poesie fino ai testi teatrali. La prima pubblicazione all’età di quarant’anni nel 1989, con “ Non ora, non qui” edito da Feltrinelli. Da quel momento in poi, un fiume in piena, decine e decine di pubblicazioni.
Autore controverso, ha rivolto da sempre la sua attenzione agli ultimi, alle minoranze, ha combattuto, pagando di persona, tutto ciò che ha ritenuto privilegio a danno altrui.
Nel 2009 il critico letterario Giorgio Di Rienzo dalle pagine del Corriere della Sera lo ha definito “scrittore d’Italia del decennio”
Erri De Luca è autore di straordinaria intelligenza e profondità di pensiero.
“Considero valore ogni forma di vita, la neve, la fragola, la mosca. Considero valore il regno minerale, l’assemblea delle stelle. Considero valore il vino finché dura il pasto, un sorriso involontario, la stanchezza di chi non si è risparmiato, due vecchi che si amano”.
Sono i versi di “Considero valore” una delle sue poesie più celebri che testimoniano la sensibilità assolutamente fuori dal comune che caratterizza lo scrittore
Senza mezzi termini, nutro per Erri De Luca un’ammirazione smisurata per la capacità d’indagine introspettiva che manifesta e per la sua maestria sulla distanza breve.
“Il Peso della farfalla” rappresenta, per l’appunto, un caposaldo nel romanzo breve. Sessanta pagine caratterizzate da una scrittura densa, asciutta, ma sempre chiara ed efficacissima. Evocativa. Poetica. Sessanta pagine di scrittura essenziale nelle quali non c’è spreco di parole, gli aggettivi poggiati tra le righe sono lì a riprendersi la loro funzione di aggiungere significato e non di abbellire un testo. Sessanta pagine da leggere con accuratezza, frase per frase, parola per parola; pagine che lasciano il lettore senza fiato per la capacità immediata e diretta di restituire in modo lucido, perfetto, l’immagine fisica o metafisica descritta.
Il romanzo racconta di un camoscio capobranco che sente prossima la fine, e di un cacciatore di frodo, un bracconiere che gli dà la caccia, anch’egli giunto nella stagione più avanzata dell’esistenza. Due vite parallele che sanno di doversi incontrare, ineludibilmente. Da vent’anni si cercano e si evitano, si confrontano a distanza. Il cacciatore e il camoscio come Achab e Moby Dick. Apparentemente una favola, è in realtà una storia di durezze, di solitudine, d’amore. Entrambi i protagonisti coscienti, in un giorno di novembre, del loro destino.
“Quel mattino di novembre si svegliò stanco e seppe che era all’ultima stagione di supremazia. Le sue corna si sarebbero arrese a quelle di un suo figlio più deciso. Ne aveva già dovuto ferire uno al ventre, senza andare al fondo, uno che scalpitava. Uno di loro avrebbe sparso le sue budella al prato e lui sarebbe stato una carcassa sconfitta e svuotata. Non doveva finire così, meglio scomparire, in quello stesso inverno e non farsi trovare”
Nelle pagine del romanzo il camoscio è quasi umanizzato, pensa, adotta strategie consapevoli. I comportamenti e i pensieri dell’animale e quelli dell’uomo sono speculari, al punto da creare collegamento e vicinanza tra i due mondi.
Le considerazioni del cacciatore, all’alba dello stesso giorno di novembre, non sono infatti dissimili da quelle del camoscio.
“Il giorno di novembre era lucente, un giorno buono per chi è giovane e scintilla di energie. Di quelle ne ricordava il profumo di cuoio ingrassato e di prima neve. Ora rubava le energie all’aria, le assorbiva dal fuoco, le proteggeva dal vento. Era un pezzo di pane secco da strofinare all’aringa appesa al trave, per riavere sapore.”
Entrambi sono RE dei loro regni. Il cacciatore è per tutti il migliore nello stanare e uccidere il camoscio, l’animale è il capobranco che da anni domina in montagna, ma nessuno dei due si sopravvaluta né si aspetta un destino diverso dagli altri. Sanno entrambi quale sarà e lo accettano con dignità e rigore. Non rassegnazione, ma consapevolezza del tempo e delle stagioni.
“Le bestie sanno il tempo in tempo, quando serve saperlo. Pensarci prima è rovina di uomini e non prepara alla prontezza”
“Il cervello dell’uomo è ruminante, rimastica le informazioni dei sensi, le combina in probabilità. L’uomo così è capace di premeditare il tempo, progettarlo. E’ pure la sua dannazione, perché dà la certezza di morire. Quel giorno di novembre l’uomo sapeva di rasentare il termine”
La prosa di Erri De Luca, com’evidente dalle poche battute riportate, rappresenta a mio avviso un unicum nel panorama letterario. E’ lirica. Si posiziona su quella linea d’orizzonte cui aspirano tutti gli scrittori, nel punto esatto di confine in cui la prosa incrocia la poesia. A tal proposito, il salto da una roccia all’altra da parte dei camosci, l’autore lo definisce come “un rammendo tra due bordi, un punto di sutura sopra il vuoto” E’ un’immagine talmente potente e insieme eterea che solo un “poeta della prosa” come Erri De Luca poteva tirar fuori dal cilindro.
Non dirò nulla circa l’epilogo, né del peso che avrà la farfalla, perché non voglio togliere nulla alla suspance finale. Dirò solo che un essere piccolo e insignificante come una farfalla, (“piuma aggiunta al carico degli anni, quella che sfascia”) non è stato creato per niente dal “Capomastro”, definizione con la quale il cacciatore battezza il Creatore, ma fa parte del superiore disegno della Natura, che cementa e unisce gli esseri.
Ottavio Mirra vive a Capua, in provincia di Caserta. E’ padre di due figli, velista e avvocato, il tutto rigorosamente in quest’ordine. Ama leggere. Nel 2016 ha vinto i premi letterari Racconti nella Rete e Terre di Lavoro – Racconti dal presente. Nel 2018 invece è stato selezionato tra i primi venticinque nell’ambito del premio letterario Zeno e tra i primi cinque per il premio Nautilus. Suoi racconti sono stati pubblicati in diverse antologie. Dal porticato (2019, Il seme bianco) è la sua raccolta d’esordio