Anfiteatro Campano
L’anfiteatro di Capua sorge esattamente sulle rovine dell’antica Capua (oggi Santa Maria Capua Vetere).
Nell’anno 841, nel corso di una lotta per la successione al ducato di Benevento, il principe Radelchi I assoldò una banda di Saraceni, comandata dal berbero Halfun, contro Landolfo conte di Caserta: i mercenari al soldo di Radelchi saccheggiarono e distrussero l’antica Capua, così da costringere la popolazione alla fuga. Dopo la distruzione, la popolazione fuoriuscì dalla città in rovina e si rifugiò dapprima a Sicopoli per poi collocarsi, dopo pochi anni e in seguito ad un probabile grande incendio, su un’ansa del fiume Volturno, sul luogo dove aveva sede il porto fluviale romano di Casilinum.
Il sito della rifondazione della città era in piena pianura rispetto a Sicopoli, arroccata sulla collina della Palombara a Triflisco e difficilmente raggiungibile, ma ugualmente inespugnabile grazie alla difesa naturale offerta dal fiume.
La nuova Capua si pose fin da subito in assoluta continuità con quella che era stata l’antica città romana, tanto da ereditarne il nome, la cittadinanza e il suo tessuto sociale, il ruolo politico e la sede della Arcidiocesi di Capua mentre il sito dell’antico centro della città andò impaludendosi col tempo come conseguenza dell’abbandono e dell’incuria e restando quasi del tutto spopolato per qualche secolo, diviso tra i minuscoli borghi di San Pietro ad Corpus, di Santa Maria Maggiore e di Berelais (parola longobarda indicante i vecchi anfiteatri romani in quanto corrispondente alla zona dell’Anfiteatro campano).
Dopo gli antichi fasti, la città mutò in un borgo contadino e divenne frazione dell’odierna Capua con il nome di Villa Santa Maria Maggiore (Villa Sanctae Mariae Maioris).
Nel 1806 la frazione fu eretta a Comune e denominata Santa Maria Maggiore. Fu solo con l’unità d’Italia, nel 1862 che la città assunse il nome attuale, per evitare equivoci con il comune del Verbano Cusio Ossola.
Santa Maria Capua Vetere si trova a poca distanza dalla grande ansa del fiume Volturno sulla quale sorge Capua.
L’anfiteatro è il secondo in ordine di grandezza tra tali tipi di monumenti nell’Italia antica dopo il Colosseo (m 165 sull’asse maggiore, m. 135 su quello minore a livello dell’arena), fu innalzato tra la fine del I e gli inizi del II secolo d.C. in sostituzione dell’arena meno capiente risalente ad età graccana, i cui resti sono stati individuati a Sud-Est.
Della sua vicenda edilizia informa un’iscrizione dedicata da Antonino Pio, in parte conservata a Capua presso il Museo Provinciale Campano, nella quale si fa menzione dei restauri del colonnato e del nuovo arredo scultoreo fatti eseguire dall’imperatore Adriano.
L’edificio, in genere adibito agli spettacoli gladiatori, presentava in origine i quattro ordini canonici (ima, media e summa cavea, attico) di spalti, accessibili attraverso scale interne ed esterne, impostati su altrettanti livelli di gallerie in opus latericium comunicanti, e si apriva in facciata con ottanta arcate realizzate in blocchi di calcare di uguale ampiezza ad eccezione di quelle poste in corrispondenza dei quattro punti cardinali, coincidenti con gli ingressi principali. Esse erano enfatizzate dalla presenza di semicolonne appoggiate ai pilastri in ordine tuscanico, come quelle in parte conservate all’entrata orientale. Le chiavi d’arco dei primi due ordini di archi della facciata erano arricchite da 240 busti a rilievo di divinità, tra le quali: Giove, Giunone, Demetra, Diana, Mercurio, Minerva, Volturno, Apollo, e Mitra, oltre a teste di Pan, satiri e maschere teatrali, nel terzo ordine; di esse se ne conservano solo 20 in loco, poche altre al Museo Archeologico Nazionale di Napoli ed al Museo Provinciale Campano, mentre la gran parte furono poi riutilizzate come materiali di spoglio.
Il perimetro esterno della platea che circonda l’edificio, realizzata in blocchi di calcare in fasce concentriche, era delimitata da cippi lisci e scolpiti, di cui se ne conserva solo uno con l’immagine a rilievo d’Ercole sulla facciata verso l’anfiteatro ed un altro con Silvano sulla facciata esterna; tra i cippi erano installate transenne per separare il marciapiede dall’area circostante. Le gradinate della cavea erano rivestite in marmo e la summa cavea era sovrastata da un portico ornato con statue e colonne. Le parti ornamentali sono andate quasi tutte perdute ad eccezione di una Venere, il c.d. Adone ed il gruppo di Amore e Psiche; si sono invece conservati i plutei frontonali e le balaustre dei vomitoria (varchi di accesso agli spalti. I primi, collocati in origine sull’architrave della porta, mostrano scene mitologiche e di carattere commemorativo a rilievo; le altre, poste come corrimano ai lati degli ultimi scalini, erano scolpiti su entrambi i lati con animali esotici o con scene di caccia tra animali. Il piano dell’arena era costituito da tavoloni di legno cosparsi di sabbia per consentire lo svolgimento dei combattimenti, al si sotto del quale si sviluppavano i sotterranei, comunicanti tra loro mediante corridoi ed accessibili attraverso quattro scalette presenti negli ambienti di servizio, ubicati dietro il podio ed utilizzati per i macchinari e gli apparati scenici.
L’ingresso principale che consentiva di raggiungere i sotterranei e di condurvi le gabbie degli animali senza passare dai porticati è collocato invece sul lato occidentale. Sul lato orientale si trovava anche un condotto di collegamento ad una cisterna costruita in opus reticulatum, nella quale si raccoglieva l’acqua per la pulizia dei sotterranei. Al V-VI secolo d.C., inoltre, risale una cappella ricavata nella seconda navata a Nord dell’ingresso occidentale. L’anfiteatro nel 456 d.C. subì rovinose distruzione durante il saccheggio di Genserico, ma fu riparato nel 530 d.C. Durante il dominio gotico e longobardo l’edificio continuò ad avere funzione di arena; poi, dopo la distruzione della città nell’841 d.C. ad opera dei Saraceni, venne trasformato in una fortezza.
A partire dal periodo della dominazione sveva divenne cava di estrazione di materiali lapidei reimpiegati nella costruzione degli edifici della città di Capua medievale. Parzialmente scavato tra il 1811 ed il 1860, fu definitivamente liberato dagli enormi ammassi di terra tra il 1920 ed il 1930, con numerosi successivi interventi di restauro conservativo nel tempo.
Spartaco: lo schiavo ribelle contro Roma
Spartaco era uno schiavo originario della Tracia, una vasta regione dei Balcani orientali, impiegato come gladiatore in Campania nel 1° secolo a.C. La sua rivolta contro Roma, iniziata nel 73 a.C., è diventata il simbolo della lotta degli oppressi contro gli oppressori. Al mito di Spartaco si ispireranno ancora in età moderna molti movimenti politici e sindacali di ispirazione socialista o populista
La schiavitù
Il 1° secolo a.C. fu il periodo di maggiore espansionismo nella storia di Roma repubblicana, il cui potere si andava diffondendo rapidamente su tutto il mondo conosciuto. In Italia, assieme a enormi ricchezze, affluivano anche masse di schiavi con l’effetto di impoverire ancora di più i piccoli contadini italici: costoro infatti non potevano reggere il confronto con le produzioni a bassissimo costo delle aziende con gli schiavi, per cui si indebitavano fino a diventare nullatenenti, situazione cui cercarono soluzione i Gracchi.
Le masse di nullatenenti si rifugiavano nelle grandi città, e in particolare a Roma, dove tentavano di vivere di espedienti e di carità. Anche per soddisfare queste folle di sfaccendati venivano organizzati, a cura dei magistrati dello Stato, i grandi giochi gladiatori, che di norma impegnavano gli schiavi più forti, appositamente allenati in vere e proprie scuole.
Scoppia la rivolta
Fu da una di queste scuole – quella di Gneo Lentulo Barbato, a Capua – che nel 73 a.C. iniziò la grande avventura di Spartaco. Da questa scuola partì la rivolta di un gruppo di 80 gladiatori che riuscì a sterminare i carcerieri e ad arroccarsi sulle falde del Vesuvio. Qui i gladiatori riuscirono ad attrarre altri schiavi dalle vicinanze, per lo più impiegati in agricoltura, non gladiatori, ma quasi tutti prigionieri di guerra, abituati all’uso delle armi. Tra questi nuovi compagni si segnalarono Crisso ed Enomao, che divennero i più stretti collaboratori di Spartaco. Progressivamente, oltre agli schiavi, si unì un numero sempre crescente di contadini impoveriti.
In breve tempo, grazie anche all’iniziale sottovalutazione del problema da parte di Roma, l’esercito di schiavi arrivò a contare oltre 40.000 uomini. Quando divennero così numerosi, Spartaco decise di muoversi dal Vesuvio in cerca della libertà, ma una differenza di vedute con Crisso ed Enomao portò alla divisione dell’esercito in due tronconi: quello maggiore, di 30.000 uomini, si diresse sotto la guida di Spartaco a nord, verso le Alpi, mentre il resto dei disperati si diresse a sud, in Puglia, dove venne sterminato dall’esercito del console Valerio Publicola. Questi però non riuscì a battere le truppe di Spartaco, che anzi ottenne una clamorosa vittoria nei pressi di Modena. Poi, però, inspiegabilmente, decise di non proseguire la sua marcia verso la libertà, ma tornò indietro verso sud, con un esercito ormai accresciuto a 100.000 uomini: ovunque passava schiavi e contadini impoveriti si univano a lui.
La sconfitta e la morte
A questo punto a Roma apparve chiarissimo il pericolo costituito da questo nuovo nemico. Vennero dati poteri eccezionali al pretore Marco Licinio Crasso, al quale fu affidato un esercito di dieci legioni. Frattanto Spartaco cominciò a sperimentare le difficoltà di tenere unito un esercito immenso e indisciplinato, un’accozzaglia di disertori e diseredati, piuttosto che una vera unità militare. La decisione di dividere le sue forze in unità più piccole fu probabilmente dettata da necessità pratiche piuttosto che da calcolo strategico. Crasso riuscì ad annientare una di queste unità più piccole e ad assediare il grosso dell’esercito di Spartaco nei pressi di Reggio Calabria costruendo una palizzata lunga ben 55 km. Spartaco, infatti, aveva in progetto di tentare uno sbarco in Sicilia, ma all’ultimo momento gli mancò il sostegno della flotta dei pirati cilici che si erano offerti di aiutarlo. Egli riuscì comunque a liberarsi dalla morsa di Crasso, ma il suo gruppo continuò a sfaldarsi. Crasso inseguì e sterminò uno a uno i vari gruppi di schiavi, fino a giungere al grande scontro decisivo con Spartaco e i suoi in Lucania.
Fu un vero e proprio massacro, nel corso del quale morì lo stesso Spartaco, anche se non se ne poté identificare il corpo (71 a.C.). I 6.000 prigionieri che in quella battaglia furono catturati vennero tutti crocifissi ai bordi della via Appia. Un ultimo gruppo che era sfuggito al massacro venne sterminato in Etruria dalle truppe al comando di Pompeo.
Secondo una leggenda popolare, Spartaco non venne riconosciuto ma fu catturato e venne crocifisso insieme agli altri prigionieri (come si mostra nello Spartacus di Stanley Kubrick) sorte che effettivamente tocco a una gran parte dei prigionieri.